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Passioni napoleoniche oggi compie un anno. Ideata dal direttore della Gazzetta Aldo Grandi, la rubrica è iniziata il 21 luglio 2021 per celebrare il bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte. Ringrazio il direttore per questa opportunità.
È stato per me un viaggio emozionante ed entusiasmante, mano nella mano, al fianco di Napoleone Bonaparte. Da quando lui era bambino, appena nato il 15 agosto 1769 ad Ajaccio, in Corsica, fino al suo ultimo respiro, quando si spense il 5 maggio 1821 a Longwood nell’isola di Sant’Elena, un luogo sperduto dell’Oceano Atlantico, uno dei luoghi più inaccessibili al mondo.
Ha vissuto una vita intensa, straordinariamente ricca di eventi e non priva di qualche contraddizione, che lo ha visto condottiero militare, generale, primo console e imperatore dei francesi oltreché promotore di grandi riforme economiche, sociali, giuridiche.
Entusiasmante, ma certo non facile, raccontare le gesta di un personaggio di cui solo pronunciare il suo nome evoca in me un senso d’immensità e il desiderio di tradurre questa infinita grandezza all’interno della rubrica.
È stata un’esperienza fantastica, condivisa con tanti appassionati lettori. I loro commenti ai miei scritti accrescevano il mio entusiasmo e anche per questo li ringrazio. Senza di loro sarebbe stato un viaggio che neppure Bonaparte, coraggioso qual era avrebbe accettato di fare.
Napoleone è stato un personaggio le cui gesta sono state di una tale grandezza che hanno del fantastico. Qualsiasi testimonianza riferita alla sua storia non troverà mai un punto fermo di certezza che lo possa collocare, definire o interpretare secondo un pensiero unico precostituito.
Che lo si ammiri o, al contrario, lo si detesti, Napoleone è uno degli uomini più famosi della Storia e ha creato intorno a sé una leggenda, che grazie al suo “Memoriale” ha reso immortale.
La costruzione di un mito, rimasta intatta nei secoli nella memoria collettiva, passa sia attraverso grandi eventi storici, sia tramite l’uso dei simboli; in alcuni casi semplicissimi, che contraddistinguono in modo così profondo la figura storica, tanto da renderla immediatamente riconoscibile in qualsiasi contesto.
Il simbolo che ancora incarna Napoleone nella memoria collettiva è senza dubbio il suo cappello. Sempre indossato, non en colonne come gli ufficiali, con un corno davanti e uno dietro, ma en bataille con i due corni paralleli alla linea della spalla, per renderlo immediatamente riconoscibile ai suoi uomini sul teatro di guerra.
All’inizio di un monologo in una scena del dramma in sei atti l’Aiglon di Edmon Rostand, il cancelliere di Stato austriaco, Klemens von Metternich, infido nemico di Napoleone, esprime tutto il suo odio verso il copricapo di Bonaparte con questa esclamazione: «Eccoti, Leggendario!»
Quel chapeau imperiale ha contribuito all’immagine immortale di Napoleone che tanto lo tormentava.
Durante il periodo del consolato, Napoleone cominciò a utilizzare il cappello, entrando così nell’immaginario comune.
Si tratta del modello detto petit chapeau, realizzato in feltro di pelliccia di castoro, caratterizzato dal colore scuro, o nero o grigio, dalla forma semplice e decorato da una piccola coccarda tricolore fermata da un anello di seta, chiuso da un bottone.
La prima attestazione di questa nuova mise è in un disegno, conservato presso il Castello della Malmaison, del pittore francese Jean Baptiste Isabey (Nancy, 1767 – Parigi, 1855) che rappresenta il primo console con la divisa delle guardie consolari proprio nei giardini dello stesso castello. Di questo cappello si conserva un esemplare presso il Museo de l’Armée - Invalides di Parigi, databile al periodo del consolato (1799-1800), lungo 43 cm da un estremo all’altro del copricapo e alto 13 cm nella parte anteriore e 16 cm in quella posteriore, con un diametro di 18 cm. La datazione al periodo del consolato è stata attribuita grazie alla presenza all’interno dell’oggetto del marchio di fabbrica di Paupard, «Au temple du goût. Poupard, Marchand Chapelier Gallonier. Palais Egalité n. 32. A Paris». Tale marchio non fu più apposto ai cappelli consegnati al sovrano dopo la proclamazione della Francia a impero nel 1804.
Dal 1804 il chapeau français fu l’unico cappello adottato da Napoleone e insieme alla redingote grigia divenne uno degli attributi maggiormente conosciuti dal grande pubblico. Le fonti continuano ad attestare come unico fornitore ufficiale dei cappelli di Napoleone il parigino Poupard. Secondo la commissione ottenuta, egli doveva consegnare quattro cappelli l’anno in castoro nero, senza decorazione, se non una coccarda tricolore infilata in un anello di seta nero con bottone di analoga fattura, per un prezzo di 48 franchi ciascuno, poi alzato a 60 franchi. Le dimensioni variavano dai 41 ai 47 cm da un estremo all’altro del copricapo, e dai 24 ai 26 cm nella sua massima altezza. Dei cappelli del periodo imperiale se ne conservano due bellissimi esemplari presso il Museo de l’Armée Invalides di Parigi di cui uno fu il cappello utilizzato da Napoleone durante il suo esilio sull’isola di Sant’Elena.
Oggi si stima che Napoleone abbia utilizzato dal 1800 sino al 1821, anno della sua morte, circa 160 bicorni e attualmente se ne conservano 30 che risultano legati attraverso la documentazione Bonaparte.
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento dell'avvocato Palazzoni contenente alcune riflessioni sul Summer Festival e sulla sua organizzazione relativamente ai concerti organizzati sugli spalti delle Mura:
Sono stato sempre indifferente alle conseguenze, in termini di vivibilità della città, che il Summer Festival riverbera su Lucca, nella oggettiva consapevolezza che la celebre e ventennale manifestazione apporti, quanto meno in termini di visibilità, indubbi vantaggi alla nostra città e che, comunque, certi disagi siano fisiologici in rapporto a determinati eventi.
Mi domando, però, sino a che punto possano spingersi tali disagi in rapporto alle esigenze di chi la città la vive per motivazioni di lavoro o, comunque, come semplice cittadino.
Ed allora mi permetto di fare una sintesi ponderata sulle dinamiche quotidiane (seppur risicate a due giorni, esclusi quelli per i preparativi e per lavori di ripristino dei luoghi) che un cittadino lucchese è costretto ad affrontare, non certo per motivazioni vacanziere o ludiche, quanto piuttosto per andare a lavoro.
In questi due giorni che hanno veduto e stanno vedendo Lucca interessata da due Big della musica italiana, quali Zucchero e Blanco, pare di vivere in una città in stile antisommossa: passi la chiusura di un tratto della circonvallazione, passino gli sbarramenti a determinate aree della città, ma è inammissibile che siano state chiuse, anche al passaggio pedonale, le sortite di accesso e di uscita alla città, quali ad esempio il sottopasso di San Concordio, il tutto accompagnato – e questo è senz’altro l’elemento più significativo ed evidente – da una sostanziale carenza di informazione nei confronti di cittadini, anche i più attenti: mi si dirà che è stata data formale comunicazione mediante le rituali ordinanze comunali, però tali modalità informative non possono essere sufficienti, in termini sostanziali, per rendere effettivamente edotti i cittadini in ordine ad uno stato di stravolgimento totale della città.
Mi domando ancora, a questo punto, se ed in che misura Lucca (che, salvo il più od il meno, conta come Comune 88.000 abitanti) possa sopportare in due giorni di concerti circa 50.000 persone e, ove le possa effettivamente digerire, se ed in che misura sia azzeccata la scelta di organizzare gli spettacoli in due giorni consecutivi, per di più lavorativi.
Proseguo nei miei interrogativi per chiedermi se anche la localizzazione dei concerti sia la più idonea in rapporto ai numeri sopra indicati: abbiamo uno stadio, bello o brutto che sia poco importa, che potrebbe comunque dare sfogo alle esigenze degli organizzatori, rispettando lo spirito e l’anima della città che, così facendo, vengono letteralmente ignorati.
Ed allora ben vengano le manifestazioni, ben accetti dal mio punto di vista sono gli imprenditori illuminati che si sacrificano e profondono sforzi economici importanti (ovviamente per un profitto, perché nessuno di questi tempi è Babbo Natale, se mai lo è stato) per la realizzazione di eventi di indubbia caratura anche internazionale, ma altrettanto debbono essere rispettate le legittime esigenze e gli altrettanto oggettivamente validi diritti dei cittadini che, seppur per un limitato arco temporale, si vedono totalmente sacrificati, quasi che non esistessero: ricordiamoci che Lucca la mandano avanti tutto l’anno anche i cittadini ed i commercianti lucchesi (per inciso, stasera i negozi in centro saranno aperti, e mi domando in quanti avranno la tenacia e la bravura di superare i cordoni di sicurezza), commercianti in minima parte avvantaggiati dalla manifestazione.
Lucca non è questo, o quantomeno questa non è l’idea e l’immagine della mia città per come l’ho sempre professata, vale a dire una città a misura d’uomo e non certo a misura di un alpinista di quarto livello che, per fare 3 o 4 chilometri, affronta più difficoltà di quante ne troverebbe, per l’appunto, uno scalatore esperto.
Dunque, Lucca città aperta, ma solamente a chi la rispetta e non la stravolge nella sua normale quotidianità.