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Fra le moltissime lettere scritte da Giacomo Puccini, ve n’è una che trovo assai significativa e tenera. La scrisse alla mamma Albina, in data 18 dicembre 1880 da Milano, dove frequentava il Conservatorio Giuseppe Verdi. Erano passati appena due mesi da quando aveva lasciato Lucca e già sentiva nostalgia per la famiglia, per la città e la sua cucina. Nella lettera descrive alla mamma come passa le giornate, e mettendo in evidenza là “frugalità” del suo pasto serale, ci fa capire quanto vigoroso fosse il suo appetito: “… mangio un minestrone alla milanese che per la verità è assai buono. Ne mangio tre scodelle poi qualche altro empiastro, un pezzetto di calcio con i “bei” ed un mezzo litro di vino.”
Il minestrone è buono, certo, ma manca la rifinitura dell’olio lucchese. Così continua: “Avrei bisogno d’una cosa ma ho paura a dirgliela perché capisco anch’io che lei non può spendere. Ma stia a sentire è roba da poco. Siccome ho una gran voglia di fagioli (anzi un giorno me li fecero ma non li potei mangiare a cagione dell’olio che qui è di sesamo o di lino) dunque dicevo avrei bisogno di un po’ d’olio ma di quello nuovo. La pregherei di mandarmene un popoino”. Rivolgendosi alla mamma, Giacomo le dà sempre del “lei”.
Sicuramente Albina glielo mandò e forsanche accompagnandolo da un cotto di fagioli borlotti “dei nostri”, nonostante le precarie condizioni economiche che da tempo ormai caratterizzavano la vita della famiglia Puccini.
Dopo la morte del marito, Albina si era ritrovata con 8 figli da campare, ancora bambini; addirittura il più piccolo, Michele, nacque tre mesi dopo la morte del padre. Albina, in effetti, aveva partorito nove figli ma uno di essi (Temi), morì prima ancora di aver compiuto un anno di età. Doveva tirare avanti con 67 lire al mese di pensione e non era per niente facile: si pensi che soltanto per acquistare la stoffa necessaria per confezionare un paio di pantaloni, occorrevano circa 30 lire. Albina non soltanto vi riuscì, ma addirittura li fece studiare tutti e poi sistemarli nel migliore dei modi, tranne Macrina che morì nel 1870, a otto anni.
Otilia, insegnante di pianoforte, sposò Massimo Del Carlo che divenne sindaco di Lucca. Tomaide, professoressa di francese sposò Enrico Gherardi. Nitteti, maestra, sposò Alberto Marsili avvocato pisano. La quarta Iginia, suor Giulia Enrichetta, fu superiora nel monastero delle agostiniane di Vico Pelago. Ramelde, dopo le magistrali sposò Raffaello Franceschini, esattore a Pescia. A differenza delle figlie, con nomi così originali, i figli furono battezzati semplicemente come Giacomo e Michele. Entrambi vissero di musica dopo il conservatorio, ma Michele dovette emigrare in Argentina dove insegnò musica e italiano; morì di febbre gialla, in Brasile, a Rio de Janeiro, il 12 marzo 1891, a soli 27 anni.
Albina era donna dalle mille risorse e fu la prima a credere nelle potenzialità di Giacomo. Era necessario farlo studiare a Milano, dove c’era un conservatorio prestigioso, un teatro come la Scala e la Casa di musica Ricordi per far conoscere suo figlio al mondo intero. Senza aiuti però era impossibile mantenerlo a Milano per tre anni. Così, attraverso una sua conoscente, la marchesa Pallavicini inoltrò una domanda di borsa di studio alla Regina Margherita, sapendola mecenate e protettrice di giovani artisti. La Regina rispose accordando a Giacomo un borsa di studio di 100 lire al mese per un anno. Il cugino del padre, dott. Nicola Cerù, si impegnò a pagargli il soggiorno a Milano per gli ulteriori due anni. Con ogni probabilità però mantenne il suo impegno soltanto parzialmente, o quell’aiuto non fu sufficiente, perché mamma Albina dovette scrivere al sindaco di Lucca per ottenere un sussidio che le consentisse di fare terminare gli studi al figlio. Non ci fu risposta, allora Giacomo reiterò la richiesta qualche tempo dopo, ma neanche lui ottenne risposta.
La fiducia della Regina in Puccini fu ben riposta. Ella continuò a seguire quel giovane lucchese tanto promettente ed andò ad applaudirlo al teatro "Costanzi" di Roma in occasione della prima della Tosca, il 14 gennaio 1900.
Il 31 maggio 1884, finiti gli studi, Puccini rappresentò al Teatro Dal Verme di Milano, Le Villi, ottenendone un lusinghiero successo, la cui eco risuonò anche nella nostra città, tanto che furono in molti ad aspettarlo e celebrarlo come trionfatore alla stazione. Puccini era commosso, ma aveva fretta: voleva correre da sua madre per consegnarle la corona di alloro, ricevuta dopo il trionfo della sua prima opera.
Era atteso. Albina era a letto, ammalata ma serena, perché i suoi sacrifici erano stati ripagati da quel primo successo di suo figlio.
Chiuderà gli occhi con un sorriso sulle labbra, alcuni giorni più tardi. Era il 17 luglio 1884: Albina aveva 54 anni.
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Il sole di mezzanotte era ancora alto quando le ragazze, impressionate dalla nostra ostinazione, come gazzelle inseguite dai leopardi alla fine si arresero e ci accolsero nelle tende di un loro campeggio. Furono amplessi al sapore di sale, le ragazze non avevano avuto il tempo di fare la doccia . . .
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